di ALFIO NICOTRA
Come nove anni fa Liberazione sarà oggi in Piazza Alimonda. Il 20 Luglio 2001 due spari assassini ci portarono via Carlo Giuliani. In quella piazza macchiata di sangue innocente il suo corpo venne straziato con odio, mentre la sua memoria è stata offesa per lungo tempo. Grazie all’impegno di Giuliano e Haidi, i suoi due straordinari genitori, di sua sorella Elena, Carlo è rimasto e rimane come una ferita aperta nella coscienza della Repubblica italiana. Quella ferita che il tribunale pensava di cancellare facilmente archiviando il processo sulla sua morte senza neanche un dibattimento. Carlo era - come vollero scrivere i suoi amici sulla targa di marmo di Piazza Alimonda - semplicemente un ragazzo. Uno dei tanti che quel giorno scelsero di scendere in strada contro gli 8 grandi della terra.
Uscendo di casa non pensava di andare incontro alla morte. Si ribellava ad una repressione brutale ed ingiusta ordinata dalle più alte cariche istituzionali e dai vertici della polizia. Aveva in testa e nel cuore progetti per il futuro, anzi pensava che quell’andare a manifestare quel giorno era già il futuro che cominciava a cambiare le troppe ingiustizie del mondo.
Uscendo di casa non pensava di andare incontro alla morte. Si ribellava ad una repressione brutale ed ingiusta ordinata dalle più alte cariche istituzionali e dai vertici della polizia. Aveva in testa e nel cuore progetti per il futuro, anzi pensava che quell’andare a manifestare quel giorno era già il futuro che cominciava a cambiare le troppe ingiustizie del mondo.
Nichi Vendola, nell’intervento conclusivo delle sue “fabbriche”, ha accostato Carlo a Falcone e Borsellino, definendoli eroi. Non ce ne voglia il Presidente della Regione Puglia, ma noi continuiamo a definire Carlo quello che era: un ragazzo. Perché è questa normalità dell’esistenza, essere volto tra gli altri volti, ad averlo reso identificabile con una generazione che rompeva il tabù del pensiero unico del mercato e della mercificazione di ogni relazione.
Genova 2001 era la tappa di un cammino. Partito da Seattle, inverato nelle mobilitazioni di Praga e di Napoli, lanciato dal primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e destinato ad aprire una lunga primavera di gigantesche mobilitazioni nel nostro Paese, in Europa e nel mondo.
Rifondazione Comunista fu una delle colonne di quel processo perché ebbe la capacità e l’intuizione di mettersi a disposizione di una rete di movimenti con la quale interlocuteva da pari a pari. L’internità ai movimenti non ci fu concessa per decreto, ma ce la conquistammo con la pratica dell’ascolto, con il tessere le fila della rete unitaria e per essere stata la sola forza del panorama politico italiano ad aver contrastato senza ambiguità l’orribile guerra “umanitaria” contro la Jugoslavia. D’altronde il Genoa Social Forum contestò un G8 preparato anche nelle sue “zone rosse” dal governo D’Alema e gestito poi da quello Berlusconi.
In una recente intervista al Manifesto sempre Nichi Vendola ha affermato che «a Genova era meglio sciogliere il Prc». Una affermazione sorprendente, perché proprio quel periodo ha registrato il massimo dell’utilità sociale del nostro partito e anche della sua efficacia e capacità d’innovazione. Eravamo veramente, in quegli anni, come pesci nell’acqua. E’ da quella esperienza che nasce l’esigenza di andare oltre se stessi, dentro una crescente radicalità anticapitalista, come nel progetto originario della Sinistra Europea. L’incrocio fertile con lo zapatismo mutava inoltre anche le forme del fare politica. Nell’altro mondo possibile l’idea di un nuovo assalto al cielo prendeva nuova ed inaspettata attualità tanto da predisporre un intero continente - l’America Latina - verso sperimentazioni sia di lotta (l’Argentina, gli indigeni di Cochabamba, il movimento dei Sem Terra) sia di governo, con lo sdoganamento di una parola considerata allora in disuso come socialismo.
Le ragioni della nostra difficoltà attuale sono semmai attribuibili all’abbandono della traiettoria di Genova con la sovrapposizione tra la necessità di sconfiggere Berlusconi e l’illusione di poter determinare - con quei rapporti di forza e chiudendo con i movimenti - l’agenda politica del governo Prodi.
Ripartire da Genova è sicuramente una necessità per la sinistra. Partiamo però dalla sua “densità” e non accontentiamoci solo della sua estetica. Troppo spesso si è evocato a sproposito lo spirito di Genova per giustificare cose che da quella densità se ne discostavano sostanzialmente. Quel movimento aveva un’infinità di punti di riferimento tra economisti, scrittori, sindacalisti, uomini e donne di cultura, ma contemporaneamente ripudiava fortemente ogni forma di cesarismo. Applaudiva i leader quando lo meritavano ma li lasciava da soli quando - nel giorno della visita di Bush - pretendevano d’imbrigliarlo in una manifestazione “istituzionale” in Piazza del Popolo.
Nella democrazia partecipativa c’è un modello diametralmente opposto al berlusconismo anche nelle sue varianti populiste e di sinistra. Questo movimento non si è disperso. Ha potuto reggere, senza copertura mediatica e con l’ostilità dell’opposizione parlamentare, la più grande mobilitazione referendaria della storia italiana come quella per la ripubblicizzazione dell’acqua. L’Italia, la sinistra, hanno un bisogno disperato della “densità” di quel movimento. Come per la campagna sull’acqua “spariglierebbe” molto di più di premature candidature alle primarie. Pomigliano evidenzia il rabbioso odio di classe del capitalismo globalizzato ma anche la dignità della resistenza operaia. Se Pomigliano unisce la sinistra allora non lasciamo che la dividano rancori o quel reciproco accusarsi di essere dei “cimiteri” o “subalterni al sistema”. Partiamo da lì per difendere la dignità del lavoro e i valori della nostra Costituzione. Riprendiamo insieme il cammino di Genova.
Genova 2001 era la tappa di un cammino. Partito da Seattle, inverato nelle mobilitazioni di Praga e di Napoli, lanciato dal primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e destinato ad aprire una lunga primavera di gigantesche mobilitazioni nel nostro Paese, in Europa e nel mondo.
Rifondazione Comunista fu una delle colonne di quel processo perché ebbe la capacità e l’intuizione di mettersi a disposizione di una rete di movimenti con la quale interlocuteva da pari a pari. L’internità ai movimenti non ci fu concessa per decreto, ma ce la conquistammo con la pratica dell’ascolto, con il tessere le fila della rete unitaria e per essere stata la sola forza del panorama politico italiano ad aver contrastato senza ambiguità l’orribile guerra “umanitaria” contro la Jugoslavia. D’altronde il Genoa Social Forum contestò un G8 preparato anche nelle sue “zone rosse” dal governo D’Alema e gestito poi da quello Berlusconi.
In una recente intervista al Manifesto sempre Nichi Vendola ha affermato che «a Genova era meglio sciogliere il Prc». Una affermazione sorprendente, perché proprio quel periodo ha registrato il massimo dell’utilità sociale del nostro partito e anche della sua efficacia e capacità d’innovazione. Eravamo veramente, in quegli anni, come pesci nell’acqua. E’ da quella esperienza che nasce l’esigenza di andare oltre se stessi, dentro una crescente radicalità anticapitalista, come nel progetto originario della Sinistra Europea. L’incrocio fertile con lo zapatismo mutava inoltre anche le forme del fare politica. Nell’altro mondo possibile l’idea di un nuovo assalto al cielo prendeva nuova ed inaspettata attualità tanto da predisporre un intero continente - l’America Latina - verso sperimentazioni sia di lotta (l’Argentina, gli indigeni di Cochabamba, il movimento dei Sem Terra) sia di governo, con lo sdoganamento di una parola considerata allora in disuso come socialismo.
Le ragioni della nostra difficoltà attuale sono semmai attribuibili all’abbandono della traiettoria di Genova con la sovrapposizione tra la necessità di sconfiggere Berlusconi e l’illusione di poter determinare - con quei rapporti di forza e chiudendo con i movimenti - l’agenda politica del governo Prodi.
Ripartire da Genova è sicuramente una necessità per la sinistra. Partiamo però dalla sua “densità” e non accontentiamoci solo della sua estetica. Troppo spesso si è evocato a sproposito lo spirito di Genova per giustificare cose che da quella densità se ne discostavano sostanzialmente. Quel movimento aveva un’infinità di punti di riferimento tra economisti, scrittori, sindacalisti, uomini e donne di cultura, ma contemporaneamente ripudiava fortemente ogni forma di cesarismo. Applaudiva i leader quando lo meritavano ma li lasciava da soli quando - nel giorno della visita di Bush - pretendevano d’imbrigliarlo in una manifestazione “istituzionale” in Piazza del Popolo.
Nella democrazia partecipativa c’è un modello diametralmente opposto al berlusconismo anche nelle sue varianti populiste e di sinistra. Questo movimento non si è disperso. Ha potuto reggere, senza copertura mediatica e con l’ostilità dell’opposizione parlamentare, la più grande mobilitazione referendaria della storia italiana come quella per la ripubblicizzazione dell’acqua. L’Italia, la sinistra, hanno un bisogno disperato della “densità” di quel movimento. Come per la campagna sull’acqua “spariglierebbe” molto di più di premature candidature alle primarie. Pomigliano evidenzia il rabbioso odio di classe del capitalismo globalizzato ma anche la dignità della resistenza operaia. Se Pomigliano unisce la sinistra allora non lasciamo che la dividano rancori o quel reciproco accusarsi di essere dei “cimiteri” o “subalterni al sistema”. Partiamo da lì per difendere la dignità del lavoro e i valori della nostra Costituzione. Riprendiamo insieme il cammino di Genova.
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