Puzza di persecuzione la decisione del tribunale di Catania con cui un 16enne viene tolto alla madre perché frequenta "brutti ambienti" ovvero i Giovani comunisti/e. Ferrero: «Intervenga Napolitano»
Avevano sperato che fosse un «errore». Del resto nell'articolo su Repubblica di ieri c'era qualche piccola imprecisione, qui e là, che li faceva ben sperare. Invece è tutto vero. I Giovani comunisti di Catania hanno letto coi loro occhi una "relazione" dei servizi sociali e la conseguente sentenza emessa da un giudice. Per il tribunale della città etnea, un ragazzo di sedici anni va affidato al padre anziché alla madre con la quale ora vive, perché la donna non sarebbe in grado di garantirgli una corretta educazione. La prova? E' nell'iscrizione di quel ragazzo ad un circolo di giovani comunisti. Covo di «estremisti», dove si fa uso di droghe, di alcol. Dove si ascoltano «cattivi maestri», insegnanti di amoralità. Dove i giovani vengono plagiati. Sembra un salto all'indietro, un ritorno agli anni '60, quando un paese moderato - sostenuto da una stragrande maggioranza moderata - portò in tribunale un filosofo, comunista, partigiano, omosessuale: Aldo Braibanti. Accusandolo e condannandolo, appunto, per plagio. Nell'unico processo in Italia per quel reato, che oggi non esiste più nel nostro codice.Una storia d'altri tempi, di allora. Come d'altri tempi sembrano le burocratiche «spiegazioni» fornite dal giudice, ieri pomeriggio. Quando ormai il caso era scioppiato su tutte le tv. Il Presidente della prima sezione civile di Catania, Massimo Esher, ha provato a spiegare che nel suo provvedimento la politica non c'entra. «Nell'ordinanza non ci sono riferimenti all'appartenenza del ragazzo a partiti politici», dice. C'è invece la sua «frequentazione di luoghi di ritrovo giovanili dove è diffuso l'uso di sostanze alcoliche e psicotrope». Luogo di ritrovo che è appunto la sezione "Tienammen" dei giovani comunisti. Il giudice, insomma, conferma tutto, facendo finta di smentire.
Una storia d'altri tempi, si diceva. Con una difficoltà in più, però. Una difficoltà in più nel raccontarla. Perché la vicenda catanese ha un risvolto politico evidente - e, infatti, sono insorti tutti, a cominciare dai leader di Rifondazione, da Ferrero a Bertinotti, da Russo Spena a Grassi, fino ad arrivare al ministro Rotondi, della nuova Dc: «Essere comunista significa appartenere a una delle culture che hanno fatto la Repubblica italiana»; unici assenti nei commenti, i democratici, come sempre -; la vicenda ha una «conseguenza politica» palese ma investe anche una sfera privata. Entra direttamente nella casa di una famiglia, alle prese con un problema: una separazione difficile. Una storia, insomma, che imporrebbe il rispetto della privacy. Tanto più che c'è di mezzo un ragazzo. Ed è esattamente il favore che la madre chiede al telefono. Lei, dottoressa piuttosto conosciuta e assai stimata in città, per il suo lavoro ma anche per il suo impegno nelle fila del volontariato, si rivolge così al cronista: «Per favore, almeno voi di Liberazione , evitate di accendere i riflettori su una vicenda che può essere drammatica per mio figlio».Una vicenda che può essere raccontata, allora, solo per grandi linee. La vicenda di una famiglia che da un anno - non di più - è alle prese con una separazione sofferta. Lui, il padre, avvocato, è un uomo di destra. Non un militante ma le sue idee sono piuttosto conosciute in città. Vorrebbe che una sentenza gli assegnasse l'affidamento dei tre figli: una ragazza diciottenne, il ragazzo di 16 e un altro, poco più che bambino, di 12 anni. Figli che per ora stanno con la madre. Di mezzo ci sono molti litigi, qualcuno anche sopra le righe. Compreso un durissimo scontro fra padre e figlio. A questo punto, entrano in scena i giudici. E come sempre in questi casi, si chiede una sorta di relazione ai servizi sociali. Il padre non sta a guardare. In qualche modo collabora attivamente all'«indagine». Sostiene che il figlio non frequenta regolarmente la scuola, sostiene - addirittura - che la madre consente al ragazzo di uscire la sera qualche volta, nonostante il suo parere contrario. Sostiene che il figlio frequenta «brutte persone», frequenta persone che lo spingerebbero verso brutte idee, verso la droga. E a conferma delle sue tesi, porta anche una fotocopia, con la riproduzione della tessera dei Giovani comunisti. Circolo "Tienanmen", di Catania. Un circolo di ragazzi, un circolo studentesco. Una sede famosa, a suo modo: le loro bandiere, i loro striscioni, i volti di quei ragazzi li ritrovi in tutte le fotografie delle manifestazioni contro la mafia, contro la precarietà e il razzismo. In una città che secondo la commissione parlamentare ha un altissimo livello di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni. Il ragazzo prova a tranquillizzare il padre. Addirittura, volontariamente, si sottopone al test antidroga. Negativo. Ma non basta, il padre continua a pensare che anche quei risultati siano stati manomessi. Quella fotocopia, la fotocopia della tessera dei giovani comunisti - sottratta al ragazzo senza che lui lo sapesse - è stata «allegata» al rapporto dei servizi sociali. Il giudice ieri ha spiegato che la sentenza non è stata presa solo per quel «documento». Ma cambia poco. M.P. frequenta «ambienti» poco chiari, dove circolano droga e strane idee, va assegnato al padre, ha sentenziato il dottor Massimo Esher. Una brutta storia che ancora non si sa come andrà a finire. Il ragazzo non ci pensa proprio ad accettare l'ordinanza del giudice. E a questo punto c'è anche il rischio - come denuncia Mario Giarrusso, il legale della madre - che il tribunale possa nientemeno che valutare l'ipotesi di un «internamento coatto in una comunità». La legge arriva a prevederlo, in casi drammatici. E con quei giudici, in quel clima, nulla è da escludere, anche se tutti sperano che prevalga il buon senso. Lui, però, M.P., vorrebbe solo essere lasciato in pace. Deve preparare gli esami, deve recuperare alcune materie. Per il padre, anche i debiti che ha contratto col liceo che frequenta sono un ulteriore prova dell'incapacità della madre ad educare il figlio. Per gli altri, per tutti gli altri, sono solo la conseguenza di quanto il ragazzo ha dovuto sopportare in questi mesi. Questa, in pillole, la storia. Una difficile, dura storia familiare. Poi c'è tutto il resto. C'è un'ordinanza che, anche se in maniera non diretta - come ha tentato di spiegare ieri il giudice - alla fine arriva a «condannare» la militanza di un giovane in un partito. In un partito che fino a quattro mesi fa esprimeva la Presidenza della Camera, la terza carica dello Stato. Una notizia che «preoccupa», come ha detto proprio Bertinotti, uno dei pochi che sia riuscito a parlare con la madre, alla quale ha telefonato. Una notizia che indigna. Al punto che Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione ha chiesto l'intervento di Napolitano. «Ho scritto al Presidente perché nella sua veste di garante della Costituzione e di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura intervenga per porre rimedio a questa situazione inaccettabile». Una notizia, ancora, che non può essere sottovalutata, come dice Russo Spena: «Tutto questo sarebbe facilmente derubricabile nella categoria del grottesco e dell'assurdo, se non fosse grave e pericoloso, vero segno dei tempi di un paese e un'opinione pubblica che mostra chiari segni di afasia, degrado e illiberalità». Una notizia alla quale, in qualche modo bisogna reagire. Claudio Grassi, anche lui di Rifondazione: «Altrimenti ne dovremmo dedurre che in Italia non c'è più democrazia e che tutti noi, facenti parte di gruppi di estremisti, come ci definisce il Tribunale di Catania saremo a breve nelle condizioni di essere posti fuori legge e, perchè no?, condannati da un nuovo Tribunale speciale». Una notizia che indigna qualunque democratico. Compreso, s'è detto, il ministro Rotondi, ministro del governo Berlusconi. Che usa parole chiarissime per commentare quel che è avvenuto. Chiare e belle: «Vorrei ricordare che il comunismo italiano non ci ha negato la libertà ma, anzi, ce l'ha portata col sangue dei partigiani».Ora si aspetta la decisione definitiva del tribunale. Neanche a farlo apposta quarant'anni esatti dopo la sentenza che condannò a nove anni di reclusione Aldo Braibanti. Anche allora, una cultura clerico-moderata, una cultura di destra portò sul banco degli imputati una persona, vista come simbolo di una marea montante che avrebbe destabilizzato l'ordine esistente. Esattamente come i servizi sociali e qualche giudice vedono i giovani comunisti di Catania: scomodi. Nel '68, però, tre mesi dopo quella sentenza, tutte le università italiane erano occupate.