Marco Assennato
L'emergenza di fenomeni di partecipazione collettiva qualche volta travalica la sua tradizionale funzione di balsamo democratico e civile e raggiunge quella difficile del traduttore: tramite di messaggi da uno all'altro, filtro intelligente per sentire il mondo. Così capita, persino in quest'Italia che pensavamo sommersa culturalmente, prima che politicamente, dalla destra catodica del presidente Berlusconi, capita che si produca un fenomeno potente opposto al potere. Non una spinta conservativa, come la descrivono i media e i commentatori ma, al contrario, un seme di modernità e progresso civile che guarda avanti a sé, e considera già passato questo momento così triste della vita politica italiana. Questo è il movimento che sta attraversando le strade d'Italia. Questo, e non altro: un soffio vitale, un'anima civile, un angelo col volto in avanti, privo di nostalgia, pieno di curiosità. Non altro: non è un movimento corporativo, perché non difende lo status quo dell'Università medievale e lobbistica, né la scuola spogliata, umiliata e offesa che risulta dalle scellerate politiche dell'ultimo decennio. Né, mi perdoni Liberazione , ha nulla a che fare con il prezzo dei peperoni o del pane, col carovita, questa moltitudine giovane e viva: che l'una cosa parla dell'agonia di un piccolo partito politico e l'altra, invece, della vita d'un grande paese. Non difende, dicevo, attacca, propone, trasforma. Perché, per stare ai classici, è movimento di chi lavora, di chi produce il corpo reale della formazione italiana. Sfilano le maestre, i professori, parte dell'accademia, i precari della ricerca su cui si regge l'Università italiana, e gli studenti liberi e allergici ai sacrali simulacri della simbologia del novecento. Attacca: dice alla destra «stai solo cancellando un pilastro di democrazia, il sistema lo cambiamo noi». M'ha colpito, più della mole, la qualità di quanto accade in questi giorni: docenti universitari che, sulla scorta della critica intelligente di precari, giovani ricercatori e studenti, finalmente mettono in crisi il paradigma della destrutturazione dell'istruzione pubblica, quel sistema di pensiero pedagogicamente rozzo e amministrativamente raffinato che negli anni novanta si chiamò "autonomia". C'è una luce, s'apre uno squarcio e chi non l'ascolta fa la figura del sordo, come la ex ministra Lanzillotta che l'altra sera in tv inseguiva la destra da destra. Certo, l'autonomia ha significato l'introduzione del problema della qualità e della responsabilità nel mondo della formazione italiana, ma in modo distorto. Il movimento di queste settimane non intende sottrarsi al confronto sulla qualità, per il banale motivo che non ha nulla da difendere. In più però, l'autonomia è stata anche una bestiale, stupida e inessenziale dottrina pedagogica (o forse si dovrebbe dire anti-pedagogica): l'idea che il criterio della qualità nella costruzione dei percorsi formativi e di ricerca andasse cercato fuori dal campo della formazione e della ricerca medesima, nel mercato e nella concorrenza, in quel paradiso degli anni novanta oggi fattosi inferno della crisi finanziaria, conosciuto come neoliberismo. Questo impianto è oggi andato in crisi ed è contestato dal movimento, che ha visto nei tagli alla scuola e all'università, la goccia che fa traboccare il vaso. La storia è lunga e allude ad una continuità di politiche ispirate a quel paradigma che progressivamente hanno provato a svuotare di senso uno dei corpi della repubblica. La contestazione riguarda i tagli e le riforme pregresse. La proposta invece guarda avanti, ad una scuola nuova. Per vincere, questo movimento che ha già prodotto il primo vero crollo dei consensi alle destre, ha bisogno di generalizzarsi. Per generalizzarsi ha bisogno di due fatti: uno organizzativo e uno culturale. In primo luogo, all'interno delle scuole e delle università il movimento ha raggiunto il massimo possibile d'estensione: ne è la prova l'affanno quotidiano dei media impegnati a descrivere «gli studenti che però vogliono studiare», come quando prima delle manifestazioni di Firenze descrivevano la discesa dei barbari sulla città d'arte, che poi invece ci accolse con il consueto calore. Adesso questo deve diventare il movimento di tutte e tutti: qui il punto organizzativo. Perché il diritto all'accesso ai più alti gradi della formazione è una questione che riguarda tutti: dall'operaio all'impiegato, dal disoccupato alla casalinga. Allora vanno bene gli scioperi di categoria, vanno bene i referendum abrogativi, ma il prossimo passaggio ha un nome antico: Sciopero Generale. Tutti i sindacati, confederali e non, potrebbero farsi carico di esser tramite tra il movimento e la società. Fermiamo il paese per un giorno. Ciò potrebbe rappresentare, tra l'altro, un'inedita riconfigurazione nei rapporti intrasindacali e tra sindacati e movimenti autonomi. Ma in secondo luogo bisogna ripensare la formazione, lo statuto dei saperi, l'ordine delle discipline e i criteri della ricerca: serve una nuova cultura della scuola e dell'università pubbliche. Bisogna saper vedere l'estremo danno che si è prodotto negli ultimi dieci anni con la cosiddetta autonomia. Di quale patologia, infatti, sono sintomi i famigerati corsi di laurea in Giardinaggio Artistico, Lingue per il web, Moda e tecnologia del design - come tutti gli altri che hanno fatto proliferare in modo abnorme e patologico i corsi di laurea e le facoltà fantasma - che oggi vengono presi ad esempio degli sprechi del pubblico denaro, se non della perversa logica della professionalizzazione e della specializazione dell'offerta formativa, introdotte con l'autonomia?L'anno scorso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo ha organizzato un convegno su "I saperi umanistici nell'Università che cambia", per discutere del senso degli studi classici, o, se vogliamo, dell'importanza che essi hanno per la società intera. Fu una scelta coraggiosa, in un momento in cui pareva imperante l'idea che i classici, la storia, la filosofia siano cose da non perderci tempo, e da non buttarvi denaro. Ma in quel convegno accadde un piccolo evento, che spiega le strade affollate dai cortei di questi giorni. Tra i relatori, una studentessa ha raccontato la sua vita nell'università del 3+2. Quella vita va ascoltata, perché racconta il movimento di oggi più d'ogni commento. Si chiama Carla, la studentessa, e nel frattempo s'è laureata. Diceva, Carla: «I ritmi del nuovo ordinamento impongono uno studio compresso che non concede spazio all'elaborazione creativa delle discipline che affollano la nostra mente senza riuscire a formarla» e ancora «anche nel campo umanistico sembra essersi diffusa una fiducia incondizionata alle leggi del mercato, alla professionalizzazione, alla specializzazione, ma il sapere umanistico, non dovrebbe godere di uno statuto particolare, di un generalismo - solo apparentemente non conforme alle richieste del mercato del lavoro - necessario perché continui ad avere la sua ragion d'essere?». E concludeva, con un sogno, Carla, citando Virginia Woolf, il sogno suo di rifondare l'università su basi nuove: «Cosa si dovrà insegnare nel College Nuovo? Certo non l'arte di dominare sugli altri, non l'arte di governare, di uccidere, di accumulare terra e capitale. […] nel College Nuovo si dovranno insegnare la medicina, la matematica, la musica, la pittura, la letteratura. E l'arte dei rapporti umani». È il sogno di Carla, che in questi giorni, s'è messo in cammino. Nient'altro. Forse dovremmo ascoltarlo.
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